Ogni genio nasconde un animo tormentato e per alcuni, la persecuzione, il dramma, il tormento e/o la sofferenza rappresentano dei traguardi oltre i quali vi è il raggiungimento della forma d’arte più alta. Gli artisti sono noti per la loro sensibilità ed è questa che gli permette di vedere al di là di ciò che offusca la vista – sia degli occhi che del cuore – degli uomini comuni. Proprio a causa sua, molti di loro vivono i sentimenti in maniera più intensa e coinvolgente, senza preferire il bene sul male e viceversa. Negli artisti, l’amore è il più grande amore e l’odio il più grande odio.
Forse, era così anche per Francesco Borromini. Pittore e scultore, ma soprattutto architetto della Roma barocca, a cui dobbiamo alcuni dei più grandi e magnifici progetti del patrimonio artistico della capitale.
Francesco Borromini, in origine Castelli, nasce il 27 settembre 1599 a Bissone, in Svizzera. Il padre, Giovanni Domenico, fu un modesto architetto alla corte della famiglia Visconti di Milano. La madre, Anastasia Gravo, veniva da un ambiente agiato e arricchito dall’attività edilizia: la donna era imparentata con Domenico Fontana, architetto stimato e molto richiesto ai tempi, nato anch’egli a Bissone.
Primo di quattro figli, Castelli mostrò fin da bambino la predisposizione ai lavori manuali e data la storia familiare, venne mandato ‘a bottega’ a soli nove anni. Nel 1608, Borromini approdò a Milano e giunse alla corte del mastro Andrea Biffi, ‘l’intagliatore in pietra’, dove affinò il talento con lo scalpello e concepì la prima visione sul mondo dell’architettura. Durante la sua permanenza nella capitale lombarda, Borromini assistette alla nascita del progetto di quello che poi diventò l’imponente Duomo di Milano.
Divenuto abile scalpellino e sicuro delle proprie capacità, Castelli decise di spostarsi a Roma e di viaggiare a piedi per ammirare le bellezze dei colleghi lungo la via.
Nel 1616 fu ospite di Leone Gravo, capomastro scalpellino e parente per vie traverse sia della stessa Anastasia che di Carlo Maderno, architetto di fama nazionale. Purtroppo, la collaborazione con Gravo durò davvero poco: l’uomo perse la vita nel 1620, cadendo da un’impalcatura.
Fu in quel periodo che Castelli maturò la decisione di cambiare cognome. Secondo alcuni, il cambio fu suggerito dalla sua devozione al santo lombardo Carlo Borromeo, mentre per altri si liberò di un nome già noto nella capitale.
Dopo l’improvvisa morte di Gravo, Borromini iniziò l’apprendistato da Maderno, che a sua volta era stato apprendista di Carlo Fontana. L’architetto romano notò subito la tenacia e la forte predisposizione del giovane venuto da Bissone e per questo decise di seguirlo pari passo nella sua lunga formazione professionale. Maderno si affezionò così tanto a Borromini che questi lo considerò quasi al pari del padre e dopo la morte, volle essere seppellito nella tomba del maestro.
Borromini aveva mostrato un carattere tenace, forte e testardo, ormai noto tra i rappresentanti di spicco della piazza artistica romana. Uno degli aspetti più marcati della sua personalità era la totale devozione alla meritocrazia, l’onestà delle capacità e la poca predisposizione alle raccomandazioni, allo scambio di favori e a quelle che oggi definiremmo “spintarelle”. Secondo Borromini, integerrimo e quadrato, la superiorità del genio creativo avrebbe finito con l’imporsi su qualsiasi raccomandazione e il bene dell’arte ne sarebbe sempre uscito vincitore.
Il ben pensare del giovane è molto vicino a ciò che moltissimi suoi coetanei vivono oggi, costretti a fronteggiare l’ignoranza di raccomandati che ormai fanno guerra a loro stessi, vantando amicizie sempre più importanti. Questi, oggi come allora, chiudono ogni porta che conduce alla meritocrazia e sfasciano gli equilibri di una società fondata sul ‘saper essere’ anziché sul ‘saper fare’.
Borromini era un gran testardo. Malgrado la nobiltà dei suoi ideali, questi cozzavano terribilmente con la realtà dei fatti e la prova gli giunse in maniera traumatica e dolorosa. In vita, Carlo Maderno era riuscito ad aggiudicarsi il ruolo di capomastro nel progetto della Fabbrica di San Pietro e aveva voluto due dei suoi apprendisti più talentuosi con sé. Francesco Borromini e Gian Lorenzo Bernini offrirono il loro talento a quella che sarebbe diventata poi la basilica papale, una delle opere più straordinarie del panorama artistico mondiale.
La collaborazione tra due fu davvero fruttuosa, ma il rapporto tra gli allievi si deteriorò in modo irrecuperabile. Scultore, pittore e scenografo, Bernini aveva altri principi, forse meno onorevoli di Borromini, ma era brillante, espansivo, quasi naif. Intratteneva molte relazioni, aveva molte amicizie e spesso la sua affabilità era stata determinante nell’assegnazione di varie importanti commissioni.
Alla morte di Maderno e ritenendo il suo prediletto troppo gotico e spettrale, papa Urbano VIII decise di affidare la supervisione dei cantieri a Gian Lorenzo Bernini e così decretò il successore legittimo del maestro ormai scomparso. Ovviamente, Borromini non fu felice della decisione del pontefice, ma decise di accettare la proposta di collaborazione fattagli dal nuovo direttore dei lavori. I due collaborarono in sintonia in molti progetti, lasciando intravedere l’esperienza e il talento di entrambi: Bernini fu dedito alla pittura e all’abbellimento delle opere in superficie, mentre Borromini sviluppò il suo estro con le forme e l’inventiva dell’architettura più pura.
Un idillio destinato a non durare e a sacrificarsi sull’altare del celebre Baldacchino della Basilica di San Pietro, che spostò di fatto gli equilibri di una coppia che sembrava funzionare. Per la commissione, Bernini percepì dieci volte il compenso di Borromini e anche se i soldi stavano marcando la differenza tra due geni diversi ma uguali, non fu questo a destabilizzare l’armonia tra loro.
«Non mi dispiace che abbia avuto li denari, ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche».
Bernini sapeva che la parte superiore del Baldacchino era opera del solo Borromini, ma il dettaglio non gli sembrò importante abbastanza da essere rimarcato. L’architetto di Bissone percepì il comportamento del collega come un tentativo di farsi vanto con il genio altrui. Per questo, arrabbiato e preoccupato dall’idea di vedersi derubato del proprio talento, Francesco Borromini abbandonò la commissione.
Borromini iniziò a lavorare in proprio e da solo si affermò nel campo dell’architettura. Secondo alcuni fu Gian Lorenzo Bernini a indirizzarlo sul progetto della Chiesa di San Carlo alla Quattro Fontane, stanco di averlo tra i piedi e invidioso del genio creativo del diretto rivale. Per altri, invece, Borromini arrivò alla chiesa senza aiuti esterni, grazie alle proprie capacità.
Curioso fu che la sua prima grande commissione individuale fosse dedicata a Carlo Borromeo, il santo a cui Francesco Castelli era molto devoto nell’adolescenza.
Borromini non chiese compenso per l’opera, a patto di non dover rispondere a nessuno e di essere lasciato da solo con il suo lavoro. La straordinaria bellezza della Chiesa delle Quattro Fontane gli procurò fama e commissioni importanti, come la Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, per la quale Borromini prese spunto dal modulo della celletta delle api. Una forma semplice e forse banale, ma d’ispirazione quasi divina nella sua perfetta armonia: si apre in triangoli, si trasforma in stelle e fiorisce.
Con il successo della Chiesa di Sant’Ivo, considerato il suo capolavoro, Borromini arrivò all’apice della fama e la morte di Urbano VIII contribuì a rafforzare la stima e la fiducia nel genio creativo dell’architetto svizzero. Infatti, con la successione di Innocenzo X allo Stato Pontificio, Francesco Borromini venne scelto come architetto di riferimento per la rivoluzione urbanistica e artistica voluta dal nuovo papa.
Grazie alla fiducia del pontefice, Borromini visse il periodo di massima affermazione, durante il quale venne elogiato da molti rappresentanti della piazza artistica romana e nazionale. Venne nominato Cavaliere dell’Ordine di Cristo e si occupò di grandi commissioni, come la Basilica di San Giovanni in Laterano e il Palazzo di Propaganda Fide, dove arrivò a demolire il precedente lavoro del Bernini per ergere la Cappella dei Re Magi. A suo dire era giunto il momento di riscuotere i frutti del duro lavoro portato avanti per anni, della dedizione al maestro Maderno e della collaborazione spiacevole con l’arrogante Bernini. La meritocrazia, il talento e l’impegno l’avevano avuta vinta sulla furbizia becera, sul sistema di conoscenze per arrampicatori sociali e sul furto del proprio genio.
All’opposto, Gian Lorenzo Bernini visse degli anni duri e bui, sia dal punto di vista lavorativo che artistico. Le sue opere venivano disprezzate, le commissioni non arrivavano e i suoi precedenti lavori venivano spesso attaccati e messi in discussione. Fu proprio Francesco Borromini a notare un difetto della Basilica di San Pietro, prendendosi la rivincita tanto agognata: il campanile progettato da Michelangelo ed edificato da Bernini e Maderno aveva generato delle preoccupanti crepe sulla facciata. Ciò comportava non solo dei rischi inerenti alla stabilità della struttura, ma anche la necessità di un importante dispendio economico per il restauro immediato della stessa. Borromini, che faceva parte della commissione incaricata di fare luce sulla vicenda, capì che alla base delle crepe c’era un grossolano errore di progettazione e accusò Bernini. Questi venne condannato al pagamento di tremila scudi e la confisca dell’intero patrimonio.
Bernini non accettò la sconfitta e quindi, fece leva sulle altre qualità in suo possesso. Da grande oratore quale era, lo scultore di origine napoletana si mise in contatto con la cognata di Innocenzo X e impressionandola con le sue idee, si avvicinò ai vertici dello Stato Pontificio. Convinto dalle pressioni di Donna Olimpia, detta ‘La Papessa’ per la sua forte influenza sul cognato, Innocenzo X commissionò a Bernini la Fontana dei Quattro Fiumi.
Come detto all’inizio, l’animo degli artisti è così sensibile da vibrare al minimo soffio di fiato e quello di Francesco Borromini non era differente. Il suo demone, rappresentato dall’ossessione di venire depredato del suo genio, tornò prepotente in superficie e lo cambiò. Forse per sempre.
Il 6 dicembre 1649 venne ritrovato il cadavere un chierico, Marco Alvaro Bussoni: l’uomo era stato picchiato selvaggiamente e poi, strangolato. Il fratello della vittima indicò Francesco Borromini come mandante e gli operai al suo servizio come esecutori materiali dell’assassinio. Secondo la ricostruzione dell’epoca, l’architetto svizzero aveva ordinato ai suoi muratori di aggredire la vittima, colpevole recidivo del deturpare continuo delle opere dello stesso Borromini: alcuni ipotizzano che Bussoni fosse stato assoldato da Bernini. Ritenuto colpevole, Borromini fece appello di grazia al papa e ottenne la libertà poco prima della scomparsa dell’amato pontefice.
Anche se la condanna più dura sembrava essere ormai scampata, Borromini venne condannato in via definitiva dal destino e più di una volta. Nonostante la collaborazione passata, la commissione per il monumento funebre del papa venne affidata a Gian Lorenzo Bernini, che però non completerà mai l’opera. Dopo la morte dell’amico Fioravante Martinelli, scrittore con cui sperava di raccogliere e pubblicare i progetti di una vita, Borromini capì di non avere più alcuna possibilità di affermare il proprio genio agli occhi della storia. Preso dalla disperazione e dalla rabbia, bruciò ogni pagina dei suoi scritti e incenerì anni di studi, riflessioni, idee e guizzi creativi.
Il 2 agosto del 1667, Francesco Borromini visse una notte agitata e in preda ai deliri. Nessuno saprà mai cosa accadde nella sua mente quella sera, ma il riassunto asciutto degli eventi fu consegnato alla storia dagli atti: Borromini incastrò uno spadino nel materasso e vi si gettò sopra, restando ferito e morendo qualche ora dopo tra atroci sofferenze.
La sua sensibilità, fragile e ossessionata, lo portò a cercare in maniera disperata e perenne un’affermazione che in vita poté apprezzare per troppo poco tempo. Di certo, non per quanto meritasse. Quel male dentro, quell’essere artisti a tutti i costi, lo risucchiò in una faida a cui il suo animo delicato non era forse abituato. Perché c’è qualcosa che conta più del genio nel difficile mondo dell’arte, qualcosa che nessun vero artista comprenderà mai: l’umiltà.